Piattaforme vuote VS luoghi di co-creazione

Una Visione completamente diversa Piattaforme vuote VS luoghi di co-creazione

Le persone nelle organizzazioni vogliono essere ascoltate, viste, riconosciute. E le community online contribuiscono a creare quello spazio necessario alla valorizzazione dell’energia umana, fatta di creatività, connessione, costruzione di fiducia, collaborazione.

Come stanno cambiando le organizzazioni di fronte alle grandi trasformazioni? E quali vantaggi può avere l’adozione di un approccio community centred? Siamo nel mezzo di grandi cambiamenti, stimolati dalla tecnologia. Al di fuori delle organizzazioni abbiamo i social network, dove c’è una trasparenza radicale e possiamo connetterci con chiunque. Qui le informazioni sono sovrabbondanti, anche quando non sono accurate. All’interno delle organizzazioni invece abbiamo costruito sempre più stratificazioni: di governance, di tecnologia, di gerarchia. Tutto questo andava bene in un’epoca in cui non era facile condividere e quindi era necessaria un’infrastruttura per filtrare e distribuire. Oggi questi livelli sono un ostacolo: più le cose si muovono veloci all’esterno, più si creano attriti tra il cambiamento in atto all’esterno e la capacità di affrontarlo all’interno.

Tutto questo sta logorando le persone, come si può vedere dai bassi tassi di engagement e dal numero di dimissioni. Ma le aziende non lo vedono, continuano ad aggiungere tecnologia e piattaforme di collaborazione e questo non migliora le cose, perché siamo sommersi da canali e da una quantità di contenuti che il nostro cervello non è abituato a filtrare. Passiamo più tempo in riunioni e a gestire il nostro flusso di informazioni e molto meno tempo a fare qualcosa di interessante. Questo non significa coinvolgere le persone. Nel frattempo i dirigenti sono troppo lontani dall’esperienza emotiva di chi si sente sopraffatto e quindi non si accorgono di quanto sta accadendo.

In questo quadro le comunità online all’interno delle organizzazioni possono aiutare in primo luogo per la trasparenza: se si è disposti ad avere conversazioni asincrone testuali o anche scambi video che poi vengono tradotti in testo, tutti possono accedere alle conversazioni e quindi l’allineamento è molto più facile.

Inoltre queste comunità “definiscono” la nostra verità. In un’epoca in cui ci sono così tanti contenuti, riusciamo a distinguere ciò che è interessante attraverso le relazioni di fiducia, ma per fidarsi occorre sentirsi parte integrante e importante del processo.

C’è poi da tener presente il ruolo della tecnologia, che può fare tutto ciò che è standardizzato, ma non può costruire relazioni, non può aiutare le persone a cambiare, non può sostenere la loro sicurezza emotiva. C’è una energia umana nelle aziende fatta di creatività, connessione, costruzione di fiducia e di relazioni, partnership, collaborazione. Ma la maggior parte delle aziende si concentrano solo sulla capacità produttiva.

Infatti l’ondata di digitalizzazione durante la pandemia ha creato un’illusione di aumento della produttività, ma solo perché abbiamo misurato i documenti prodotti e le mail inviate…

Gli strumenti di CRM (Customer relationship management) contengono la parola “relazione”, ma non valutano la forza delle relazioni: gestiscono i contenuti e le transazioni dei clienti. Le organizzazioni che pensano le persone come unità di produzione non sanno come misurare le relazioni, anche perché i nostri sistemi di contabilità sono molto semplicistici: contabilizzano le cose, le contano ma non le collegano al valore aziendale.

Ad esempio, per valutare l’efficacia dell’apprendimento non si può considerare solo la presenza a un corso di formazione: bisogna arrivare alle “metriche del come” piuttosto che a quelle del “quanto”: perché – quando si impara qualcosa – cambia il comportamento.

Invece ci siamo abituati a guardare al volume. E così stiamo affogando in dati che non contano, perché non si sposano con la strategia e il valore del business.

Qui entrano in gioco le comunità, perché bisogna aiutare le persone a sentirsi viste e ascoltate, a essere riconosciute e premiate al di là dei bonus, in modo intrinseco. Una delle ricerche più interessanti degli ultimi anni rivela però che, in questo momento, le comunità stanno aiutando le persone a sentirsi ascoltate, ma non viste. Ciò ha delle implicazioni davvero profonde, perché sentirsi visti significa essere riconosciuti, è un tema di DEI (Diversity, Equity, Inclusion).

La perfezione è nemica del coinvolgimento

Come fare allora a creare coinvolgimento?

Per anni ho detto che la perfezione è nemica del coinvolgimento perché se fornisco alle persone qualcosa di perfetto, ad esempio un documento, non c’è più spazio per i contributi dei singoli. L’unico modo per coinvolgere emotivamente le persone è dare loro qualcosa di incompiuto e chiedere un aiuto per finirlo, per co-crearlo. Così non sarà più una semplice transazione, ma una proprietà condivisa.

E in questa prospettiva, quali ruoli hanno le comunità?

Penso in particolare alle comunità di pratica che “catturano” la conoscenza e quindi le best practice, che spesso non vengono condivise al di fuori del team di progetto. Nelle comunità di pratica, invece, tutti i dipendenti che vogliono sviluppare determinate competenze possono partecipare, trovando così un luogo in cui condividere sia i problemi sia ciò che si è appreso. In questa maniera, quando si impara qualcosa sull’applicazione di una best practice nuova o si innova qualcosa, i progressi vengono condivisi e le altre persone della community forniscono feedback. Così si attivano collaborazione e co-creazione, ed essendo tutto online le conoscenze restano memorizzate e accessibili ad altre persone, perché queste comunità sono aperte.

Ha parlato di community aperte, accessibili e anche dinamiche e multiple. Molte persone nelle organizzazioni fanno però confusione tra tribe e community.

Le tribe sono molto basate sull’identità. Non è di per sé una parola negativa, ma nel contesto organizzativo credo che dobbiamo concentrarci sul lavoro e non preoccuparci tanto dell’identità, perché le tribe ci mettono ai lati opposti del tavolo e ci fanno concentrare sulle nostre differenze, mentre se lavoriamo insieme a qualcosa, ci sediamo dalla stessa parte del tavolo e guardiamo al futuro senza preoccuparci delle differenze. Collaborando a qualcosa di significativo, impariamo a conoscerci.