Reputazione: se la sfida più interessante è offrirsi

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Il significato di reputazione nel corso dei secoli è cambiato. Qual è il suo attuale significato, la sua natura contemporanea? Da cosa viene costruita ed influenzata la reputazione di ciascuno di noi? In questo post (prima parte di due) esploriamo il concetto analizzandolo attraverso il filtro della contemporaneità.

Shakespeare la definiva «la parte immortale di noi stessi» ma forse solo noi, adesso, ci possiamo rendere conto di quanto corretta fosse la sua definizione. Di che cosa stiamo parlando? Della reputazione. Della fama, come la definivano gli antichi.

La nostra reputazione è ciò che gli altri pensano di noi. La definizione suona semplice ed immediata. Eppure le cose non sono così semplici. Perché la reputazione, a ben vedere, non è un semplice pensiero ma qualcosa di vivente. Un vivente carico di paradossi. La mia reputazione sono io, ma fuori di me. Allo stesso tempo, la mia reputazione è tutti quei pensieri, giudizi, sentimenti di altri che, messi, insieme, fanno me. Questo io vive una vita propria, lo sappiamo, spesso intrecciata con la nostra, anche se spesso pensiamo che la nostra reputazione viva più di quanto noi stessi viviamo…

Nasciamo senza una reputazione. Essa è dunque, in un certo senso, una nostra costruzione. Possiamo anche darci da fare per coltivarla o controllarla, la reputazione però non è il nome anagrafico che ci portiamo fino alla tomba, ma quello col quale, continuamente, altri ci battezzano. Un nome mai completamente sotto controllo, quindi. Un nome forse gradevole o forse no. In ogni caso qualcuno con cui fare i conti. Un qualcuno che siamo noi.

Non ci si può fare un’idea di qualcosa indipendentemente da ciò che si dice di essa. Questo vale anche per la conoscenza di qualcuno, di una comunità o di un’azienda. Ma, come ha ben mostrato Gloria Origgi, una filosofa del CNRS di Parigi, che ha studiato in profondità il fenomeno della reputazione, gli autori/attori di questi discorsi sono tanti e molto diversi fra loro. La reputazione è il nostro io sociale, si dice. Ma cosa significa adesso che sociale significa innanzitutto social, cioè blog, post, ‘like’, pollici in sù o in giù, tag, review, followers, ban?

Fare i conti con il problema della propria reputazione — per un individuo come per un’azienda — presuppone innanzitutto che si accetti questo caleidoscopico spossessamento. Accettarne la forza, innanzitutto. Il Web, e questo è ormai assodato, è uno spazio pubblico dalla forza strapotente. E un versante fondamentale di questa forza è la sua capacità di agganciare, incrociare, rilanciare, trasformare, vagliare, (ma anche eternare) qualsiasi traccia, anche infinitesimale di noi. Ma accettare la forza dirompente di questa espropriazione della nostra immagine cosa vuol dire? Vuol dire esporsi, consegnarsi ad essa? Forse la sfida più interessante non è esporsi, ma offrirsi. C’è un paradosso grande, infatti, in questo gioco di specchi senza fine che è la vita (soprattutto online) della nostra reputazione. Essa si nutre degli sguardi e delle parole di altri, ma questi esigono da noi una perfetta trasparenza. Certo, esiste una reputazione del nostro prodotto o del nostro gesto. Ma questa si alimenta a sua volta di giudizi e parole che scavano molto più a fondo nell’integrità complessiva di un progetto, di un’azienda, soprattutto dei suoi protagonisti. Le strategie possono essere molte ma ormai si è credibili o meritevoli di fiducia solo accettando una sfida a questo grado zero della nostra identità personale e collettiva. E allora non basta esporsi per accettare la sfida della reputazione, è necessario offrirsi. [segue]