Se comunicare vuol dire agire

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Forse non ci avete mai pensato: quando esponiamo qualcosa, un progetto, un nostro parere, non ci limitiamo solo a definire qualcosa, ma stiamo facendo qualcosa. Perché comunicazione ha già in sé la parola azione. E quale ruolo può avere questa consapevolezza in un’impresa collaborativa? Ne parliamo in questo post.

Si invoca da ogni parte la necessità di un linguaggio nuovo, più consistente. Cosa significa? Non significa sbizzarrirsi a creare formule nuove ed attraenti, significa innanzitutto riscoprire la valenza attiva, performativa del nostro linguaggio. Parlando, non ci limitiamo solo ad esporre qualcosa (un punto di vista, un progetto…), ma facciamo qualcosa. Ossia agiamo. Questo è assolutamente evidente in alcune esperienze – ad esempio quando promettiamo –, ma se questo risvolto attivo riguardasse gran parte di quanto diciamo?

In un precedente post Cristina Favini scriveva della necessità di un linguaggio nuovo, più adeguato alla necessità di una comunicazione finalmente consistente.

Se la fissità dei punti di riferimento è ormai un miraggio, se gli approdi delle nostre fatiche colpiscono più per la loro provvisorietà — per il loro essere dei tentativi —, che per la loro esattezza, questo significa qualcosa anche per l’idea di comunicazione che abbiamo in testa.

Il problema non è tanto se usiamo le parole giuste. Il lessico d’impresa, soprattutto quello legato alle performance tecnologiche, è vertiginosamente mutato negli ultimi dieci anni. E non è poi così difficile trovarsi al volo un po’ di definizioni, anche se conosciamo bene i danni e la pochezza di chi le parole le sa tutte, ma non ha la minima idea della realtà cui si fa riferimento.

La questione più interessante e urgente è però più a monte: che cosa pensiamo sia il linguaggio che usiamo? A che cosa serve? Che cosa accade quando comunichiamo?

Non è una domanda per psicologi o neuroscienziati. Qui non ci interessa sapere che cosa accade nel cervello quando parliamo e comunichiamo. Il punto è: che cosa accade nell’ambiente in cui viviamo.

Sì, perché il nostro parlare non enuncia, descrive e basta, ma trasforma. Certo, sappiamo benissimo che ci sono alcuni tipi di espressioni (pensiamo ai comandi o alle promesse) che, nell’atto di pronunciarle, fanno qualcosa (ossia sono azioni).

Ma siamo proprio sicuri che questa sia una caratteristica solo di una classe ridotta e ben circoscritta di quanto diciamo? È stato merito del filosofo J. L. Austin aver messo in evidenza, in una celebre serie di lezioni verso la metà del secolo scorso, il carattere performativo, ossia pratico, del nostro linguaggio. L’esempio del matrimonio è suo, e Come fare cose con le parole si intitolò poi, significativamente, l’edizione di quel corso.
In questo video è possibile trovare un breve sunto di alcune sue tesi:

Di sicuro non ogni nostro discorso è una dichiarazione di guerra o una promessa di matrimonio, ma quando comunichiamo a qualcuno abbiamo sempre di fronte a noi un’attesa più che non un taccuino aperto su una pagina bianca (anche se non è detto che sempre ce ne accorgiamo)? Questo significa che in realtà anche una nostra analisi o giudizio genera effetti di trasformazione. E quante volte a un nostro giudizio (o a una nostra analisi) non chiediamo di essere soltanto adeguati o esatti, ma esigiamo anche che siano persuasivi? La persuasione non è solo affabulazione o inganno. Esiste anche la persuasione che accetta di sottoporsi a una verifica. E questa verifica non è mai solo questione di teoria, ma coincide con la messa in moto di energie e di atti.

Proviamo poi a pensare a quanto ci diciamo nell’ordinaria comunicazione d’impresa come un atto di offerta.  Di spunti, di prospettive, di criteri. Già solo così, vedremmo davanti ai nostri occhi quella valenza performativa del linguaggio di cui parlava Austin. Le nostre parole diverrebbero formule di abilitazione e d’iniziativa all’azione. Persone che iniziano a collaborare sarebbero a quel punto già il primo atto generato da quanto abbiamo comunicato.

Figuriamoci poi se quell’atto di offerta non mettesse a disposizione solo spunti, prospettive o criteri, ma anche noi stessi. Così la comunicazione diventerebbe l’invito, se non già il coinvolgimento, a fare (almeno) un tratto di storia insieme. Accorgersi di questo – questo vale per noi che comunichiamo, come per chi abbiamo davanti –, apparirebbe allora come uno dei primi veri fattori di maturazione di un’impresa collaborativa.