We Design = Collaborazione

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La collaborazione tra designer e impresa si presenta spesso sulle basi consolidate della condivisione, della reciprocità, dello scambio consapevole. Ma questo avviene sempre? Per tutte le imprese? Con quali criticità?

Il tema della “collaborazione” per chi opera nei processi progettuali legati all’innovazione – e nel design in particolare – ha una storia che non si limita agli ultimi anni, non è legata esclusivamente all’affermazione di un dominio tecnologico, non ammette una collocazione settoriale esclusiva. Con alterni successi, nel tessuto nazionale, si sono affermati eco-sistemi industriali caratterizzati da meccanismi collaborativi evoluti diretti alla generazione continua di nuove soluzioni d’offerta e nuove forme di organizzazione della produzione. Tali meccanismi si sono spesso fondati su una relazione intima tra imprese e designer in cui il territorio d’azione non è contrassegnato da un perimetro rigidamente definito, i ruoli sono mutevoli, la formalizzazione dei rapporti cede il passo a scambi dominati da codici informali.

La collaborazione tra designer e impresa si presenta spesso sulle basi consolidate della condivisione, della reciprocità, dello scambio consapevole. Ma questo avviene sempre? Per tutte le imprese? Con quali criticità? Cosa sta cambiando nella relazione tra contesti della produzione e mondi del progetto? L’affermazione del designer come professione riconosciuta e “di massa” e l’avvento di tecnologie partecipative come stanno mutando le cornici collaborative in cui professionisti e imprese interagiscono? Quanto “aperto” deve essere il processo innovativo?

Il mondo del progetto, e del design in particolare, oggi riconosce diverse di forme di accesso. Concorsi di design, concorsi di idee, workshop estemporanei, piattaforme di “open design” divergono dal modello collaborativo “diadico” singola impresa-singolo designer per due fattori principali: la numerosità degli attori coinvolti nel processo innovativo, indicativo del grado di apertura del processo di design e la numerosità delle interazioni progettuali, che indica la frequenza.

Tutto ciò rischia tuttavia di trasformare i potenziali luoghi della sperimentazione e dell’innovazione d’impresa in agorà affollate di contribuenti e contributi poco pertinenti e consistenti con gli obiettivi e la direzione di marcia attesi.

Non esistono forme e modelli collaborativi validi in assoluto. Esistono opzioni collaborative che possono o meno flirtare con le risorse e la cultura aziendale. L’impresa può aprirsi quanto vuole; se non ha i giusti ricettori, una connessa capacità di assorbimento e l’abilità a trasformare le “voci della piazza” in input o processi progettuali dilapiderà in poco tempo gli sforzi (e gli investimenti) collaborativi sostenuti.

Oltretutto la collaborazione è un fatto aperto e come tale il suo progetto non può essere chiuso. Anche i social media, da Facebook a Twitter, o il blog direct2dell – il luogo virtuale dove Dell intrattiene relazioni di scambio con i propri clienti – sono nati su ipotesi che in corso d’opera sono mutate. Si potrebbe affermare paradossalmente che la forma della collaborazione si progetta con la collaborazione stessa.

Questo non significa che le aziende aprano in modo acritico e cieco le porte dei propri progetti e delle loro visioni a progettisti ignoti, a clienti più o meno esperti e ad altri potenziali contribuenti.

La collaborazione è un “flusso”, che nell’economia delle reti digitali si presenta spesso anche estremamente limitato nel tempo, volatile, evanescente.

Per aprirsi a forme collaborative con il mondo del design occorre riflettere sulle ragioni della collaborazione, sulle reciproche finalità, sui profili degli attori coinvolti, sui livelli della condivisone, sulla governance dei processi.

Il gioco delle ragioni non riguarda solo i designer, ma anche l’impresa. L’impresa collabora per attrarre talenti? Per avere buone idee (obiettivo questo spesso illusorio)? Per legarsi ad una comunità? Per aumentare il potenziale “visionario” interno?

Dal crowdsourcing all’elitesourcing vi sono diversi gradi di libertà che vanno ampliati o ridotti definendo i requisiti d’ingresso e di affiliazione, la permanenza della presenza, le caratteristiche di rappresentatività dei singoli attori, quei casi in cui i singoli si fanno portatori di istanze e contributi di altre comunità o reti.

Che cosa condividere. Qual è la direzione della condivisione? La condivisione orizzontale, quella designer – designer, è piena? E’ parziale? E’ stratificata? E la condivisione designer-azienda fin dove si estende? Fin dove l’azienda rende “accessibile” e trasparente il suo patrimonio di conoscenza?

La riflessione finale è su come si assumono le decisioni e si finalizzano i processi. Qual è la logica costruttiva delle decisioni? A chi è aperto il processo selettivo? Esistono dei “grandi elettori” o c’è un processo “peer to peer”? Si fissano prima i vincoli e poi si decide (logica darwiniana) o si generano prima le possibilità e da queste si dischiudono le logiche selettive (logica lamarkiana)?

L’ ”equazione collaborativa” non ha quasi mai risultati predeterminati.