Auto-organizzazione: una disobbedienza che può andare a buon fine

Companies Auto-organizzazione: una disobbedienza che può andare a buon fine

Per i nuovi gruppi auto-organizzati c'è bisogno di un nuovo leader costruttore di contesti.

sintesi

La complessità e, quindi, l’incertezza dei sistemi competitivi è una delle poche certezze con cui le imprese si troveranno a confrontarsi in futuro. Due sono i principali requisiti per rispondervi: avere visione dei megatrend e mobilitare l’intelligenza distribuita all’interno delle aziende, puntando su modelli di auto-organizzazione. Per autoorganizzazione si intende il risultato di un processo di emergenza dal basso, attraverso dinamiche di collaborazione e competizione (contemporaneamente) e cicli auto-rinforzanti (meccanismi che, una volta innescati, tendono ad alimentarsi da sé); un po’ come accade a uno stormo di uccelli in volo che sa essere straordinariamente armonioso pur senza avere un “centro di controllo”. Un tale approccio, per quanto “disruptive” possa suonare, non è del tutto nuovo nel campo dell’organizzazione aziendale: già negli anni ‘40, l’ingegnere Taiichi Ohno ne fece il cardine della propria opera di riforma del sistema di produzione Toyota. L’instabilità del mercato automobilistico in cui agiva l’azienda giapponese era tale per cui la sua tecno-struttura centrale – che avrebbe altrimenti funzionato in un contesto stabile – si rivelò non più capace di risolvere i problemi in velocità; di conseguenza, Ohno concepì un sistema di “lean production” (anche detto “Toyotismo” in opposizione al “Fordismo” della tradizionale catena di montaggio) in base al quale gli operai si auto-attivavano in prima persona, sostituendo a procedure e gerarchie un modello di adattamento reciproco e di presa di responsabilità ai limiti della cosiddetta “intraimprenditorialità”. Nelle piccole imprese, d’altra parte, questo genere di auto-organizzazione dal basso è lo strumento più rispondente alle dimensioni dell’impresa stessa; e anche nelle grandi imprese è spesso diffusa una certa quota di autoorganizzazione “nascosta” che risolve problemi “senza passare dal via”, e senza essere né premiata né repressa. Insomma: c’è, ma non si dice. Il nuovo leader (“conduttore”) di questi spontanei gruppi autoorganizzati è quindi chi riesce a trasferire energia ai propri collaboratori e ad essere costruttore (“builder”) di contesti che mettano ogni persona nelle condizioni di farsi a propria volta “self-leader”, ovvero di operare in libertà sfruttando la propria intelligenza. Ed è a questo punto che entra in gioco un fattore fondamentale: auto-organizzazione significa dare alla persone la possibilità di rischiare e, quindi, equipaggiare la propria impresa di un’alta tolleranza all’errore. È il modello di apprendimento “try & learn”, quello che accetta il fatto che favorire una cultura dell’intraprendere significhi, almeno all’inizio, mettere sicuramente in conto un tot di errori e fallimenti. Anche perché – come diceva il pilota Ferrari Mario Andretti – se tutto è sotto controllo, vuol dire che stai andando troppo piano. Ricordiamo quindi che, se pensiamo di disporre di collaboratori validi che abbiano la responsabilità di agire, essi devono acquisire potere; ma attenzione, non è il “centro” che lo perde, è il potere che si duplica anche “in periferia”. L’innovazione è una disobbedienza andata a buon fine. Se crediamo davvero in ciò che stiamo facendo, impariamo a rompere i paradigmi come fece Galileo Galilei: lo scienziato pisano non chiese il permesso di rivoluzionare la scienza. Tutt’al più, come lui, avremo tempo “sotto processo” di chiedere perdono.