Dalla cultura del segreto alla condivisione dei saperi

Society Dalla cultura del segreto alla condivisione dei saperi

Aggregazione per l'innovazione. Quando l'aggregazione dal basso incontra il web.

sintesi

“Non conosco Paese che più dell’Italia possa beneficiare di pratiche legate alla partecipazione e alla condivisione”, mi ha detto recentemente in un’intervista April Rinne, Chief Strategy Officer di Collaborative Lab, una delle maggiori esperte mondiali di sharing economy. “L’Italia ha inventato la piazza!”, ha aggiunto, sottintendendo – della piazza - il ruolo sociale, la sua funzione di laboratorio della civiltà urbana. Parole che mi hanno fatto riflettere. Così come il fatto che a patrocinare il progetto “Made in Italy: eccellenze in digitale” , il portale che raccoglie e racconta oltre cento storie di prodotti simbolo della tradizione artigianale e agro-alimentare italiana, sia Google. Chi italiano non è intuisce prima di noi quanto sia vicino alla storia, alla tradizione, alla creatività e al “saper fare” dell’Italia l’elemento che fa la differenza nei tanti casi di successo dell’economia collaborativa nel mondo: l’aggregazione dal basso. Parlare di “local making”, oggi, significa necessariamente parlare di aggregazione dal basso come di un’esigenza sempre più sentita. Lo testimoniano il rinnovato interesse del mondo economico, politico e accademico sui distretti e le reti d’impresa, il moltiplicarsi anche nel nostro Paese di startup legate al mondo dei servizi collaborativi, la nascita di un fenomeno che sta facendo scuola come le social street o il costituirsi dei primi distretti produttivi/ collaborativi di quartiere, come Made in Lambrate e Zona Santambrogio a Milano. “In questi anni la domanda interna ha dato poche soddisfazioni, in particolare alle piccole imprese”, mi spiega Stefano Micelli dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che coordina il progetto formativo collegato all’iniziativa di Google. “Un numero sempre maggiore di operatori, anche di taglia contenuta – è l’analisi di Micelli - si sono affacciati ai nuovi mercati. Il fatto di doversi aprire a mondi nuovi e complessi ha reso chiaro a molti dei nostri imprenditori quanto potesse essere utile e importante giocare insieme ad altri, fare squadra e immaginare percorsi di collaborazione che fino a poco tempo fa era difficile mettere in conto”. Ma c’è di più. Per queste realtà l’incontro con il web comporta una svolta soprattutto culturale: l’abbandono di quella che Micelli definisce la “cultura del segreto”, sostituita da quella della condivisione, anche dei saperi. “Oggi il racconto dei nostri prodotti amati e apprezzati nel mondo e del processo manifatturiero che sta dietro a questi prodotti – sottolinea l’autore di “Futuro artigiano” - è parte integrante del valore che il consumatore internazionale riconosce al nostro made in Italy. Se non lo raccontiamo, se ci trinceriamo dietro un’idea di segreto un po’ vetusta, rischiamo che il compratore non possa avere gli strumenti, anche culturali, per riconoscere le differenze tra il prodotto italiano e i prodotti concorrenti. Certo – conclude - ci esponiamo al rischio di essere imitati e copiati, ma si tratta di un rischio che vale la pena correre”. “Non ha più senso parlare di new economy e old economy. Google – ha dichiarato da parte sua l’executive chairman Eric Schmidt - è disposto a sostenere la fusione tra economia manifatturiera tradizionale e economia digitale per raccontare i prodotti italiani”. Parole che mi hanno fatto pensare alla tesi dell’economista Enrico Moretti, docente a Berkeley e autore del libro «La nuova geografia del lavoro», definito da Forbes “il libro di economia più importante del 2013”: in una città, per ogni nuovo posto di lavoro in settori innovativi, ne nascono altri cinque in settori tradizionali. Una tesi che amo citare in contesti, come questo, in cui “local making” fa rima con aggregazione dal basso, condivisione e, soprattutto, innovazione sociale.