Tra nomadismo e collaborazione (pt.2)

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Prosegue il “diario di bordo” di Leandro Agrò lungo le frontiere delle tecnologie sociali: nella tappa 2 si parla di come gli strumenti di collaborazione remota abbiano cambiato il nostro modo di concepire non solo il lavoro ma la “geografia”.

[… continua dalla scorsa puntata]

Una delle cose più incredibili che – come umanità in evoluzione – ci sono accadute negli ultimi venti anni riguarda la geografia.

Sarà perché sono cresciuto all’estremo sud dell’Italia, ma ricordo distintamente che da ragazzino undicenne percepivo New York quasi come fosse la Luna: distantissima e in parte aliena. A poco valevano gli inviti della mia zia americana (al sud tutti abbiamo uno zio americano); la mia “geografia” e le distanze – ancora prima di essere davvero valutate razionalmente – erano percepite come abnormi.

Oggi tutto ciò è davvero risibile. Da Milano, New York è distante in aereo quasi meno di quanto Agrigento è distante da Catania in treno. Ma, aldilà del reale tempo di spostamento, è la geografia dentro la nostra testa che è cambiata.

Non siamo mai stati tanto locali, né mai tanto globali.

Oggi siamo così tanto “locali” da fare check-in perfino quando entriamo al panificio sotto casa, e talmente globali da poter gioire con continuità della presenza remota ma emotivamente qualificata di amici sparsi su tutti i fusi orari e le regioni del pianeta.

In questa nuova geografia glocale, gli strumenti di collaborazione e di comunicazione di tipo non tradizionale hanno un ruolo fondamentale. Twitter, come Skype, sono i nostri punti di contatto con un mondo esteso su tutto il pianeta. E ora che Facebook ha ridotto i 6 gradi di separazione ad appena 4.2, essere estesi all’intero pianeta è un gioco da ragazzi.

In questo contesto, le pareti dei nostri uffici – così come gli orari del nostro lavoro – si sono fatti molli, permeabili, sfocati. Questo si vede già dall’architettura dei luoghi-casa e lavoro, sempre più sovrapponibili, così come dalle nostre abitudini. Per esempio, quella di fare check email sino a tarda notte e (quasi) come prima cosa al mattino.

Il palazzo, l’ufficio fisico, che prima decretava non solo il fatto di “essere al lavoro” ma perfino il diritto ad essere pagati in base alla semplice “presenza”, ora non è più un confine.

La sede, intesa come palazzo fisico dove si lavora, non è la mappa del luogo di lavoro.Anzi, spesso è più facile mettere insieme persone che sono lontane piuttosto che persone che sono nello stesso building.

Ed è proprio questo il sentiment di un altro aneddoto che vi racconto. A proposito del fatto che viviamo nell’era in cui tutti siamo sempre su Skype e gestiamo il lavoro bilanciando instant messaging ed email, una collega mi scrive in chat: “Uffa, non mi risponde nessuno tranne te che sei dall’altra parte del mondo! Adesso mi alzo e vado a vedere di persona che stanno combinando!”.

Quando questo accadde (ovvero non più tardi di un anno fa), mi tornò alla mente quella volta nel 2000 in cui la mia intera azienda – e stavamo tutti nello stesso building – ricevette un IM da un’amica/collega: “Guardate fuori dalla finestra: sta nevicando!”.

Ne era passato di tempo da quando quel messaggio istantaneo era stato in grado di squarciare il silenzio delle api operaie alle tastiere e farci guardare fuori…

Cinque anni dopo, la “chat”, sotto forma di conversazione Skype, era l’architrave principale della comunicazione al lavoro. Le sedi molteplici e remote per distanze e per fusi. E l’extrema ratio per non far fallire il meeting previsto consisteva nell’alzarsi dalla sedia e andare a prendere per la collottola i vari referenti vicini di scrivania.

Ma davvero ha senso “liberarsi dello spazio”?

Il nomadismo, in questo primo scorcio di millennio, è imperante. Non parlo di mobilità in senso stretto, ma di vero e proprio nomadismo.

Con le attuali tecnologie, infatti, non sempre ci è utile spostarci fisicamente. Spesso basta spostarci di contesto. Scorrere le nostre Skype List di collaborazione da una riga ad una altra. Nella riga di sopra parliamo con un collega del piano di sotto riguardo al compleanno di un terzo mentre, ad una sola riga di distanza, si tiene un meeting con altre sei persone, collegate da quattro uffici in quattro nazioni diverse.

E questo senza neanche cambiare di screen.

Sì perché, ad solo un gesto della mano da Skype, c’è un altra schermata con GitHub (social coding) e Dropbox (document sharing).

Tutti gli strumenti citati in queste ultime righe sono stati alla base di un progetto che ho sviluppato di recente: Widenoise 3. Ma questa è un’altra storia…

[continua nella prossima puntata…]