Disegnare la disintermediazione

Future Disegnare la disintermediazione

Il futuro farà a meno di molti, ma la vera sfida è il service design.

sintesi

Dopo solo tre settimane dal lancio di Google+ erano già disponibili in rete manuali collaborativi in inglese, tedesco, russo e cinese realizzati spontaneamente dagli utenti utilizzando Google Docs (sempre un tool collaborativo). La questione è molto semplice. Le persone stanno collaborando perché vogliono collaborare. Le persone stanno socializzando perché vogliono socializzare. Le persone stanno aprendo (i loro dati e contenuti) perché vogliono aprire. Le tecnologie sociali (artiglieria pesante della civiltà digitale per assediare le ultime fortificazioni del vecchio mondo gerarchico) non sono infatti solo sociali ma per l’appunto anche aperte e collaborative. Punto. Non ci sarebbe neanche più bisogno di parlarne. Perché non si parla d’altro da almeno 5 anni. Da Wikinomics a Weconomy, dal web 2.0 ai social network. Tutto è stato detto e scritto.

Il problema semmai è un altro ed è molto antico: che alla cacciata dal Giardino dell’Eden ha fatto seguito il perpetuarsi del peccato originale – simbolicamente: decidere da SOLI cosa è bene e cosa è male – nella nostra vita terrena. Discorso valido anche per il design. Si disegna fin da bambini (chi meglio e chi peggio, capita!) e nonostante alcuni approcci pedagogici “datati” (per esempio il metodo Montessori e Waldorf o Steiner, se preferite) si siano sempre sforzati di diffondere il verbo dell’apertura, della collaborazione e della socializzazione, nel mondo degli affari il dominante diktat fordista insegnava e imponeva la divisione del lavoro e quindi il design dell’io, creativo ed egocentrico costruito sul mito del genio solitario o di piccoli gruppi affiatati. Capace, è vero, di grandi performance ma oggi insufficiente e forse addirittura controproducente per gestire complessità e discontinuità. Nella nostra “weconomy” anche il design ha da essere noi-centrico. Non per vezzo ma per opportunità. Guardandosi attorno ci si rende conto che molte delle cosiddette “disruptive innovations” sono frutto di processi di design collaborativo. Forse bisogna rivedere alcuni approcci. Per dire: Research & Development già diventato (per molti) Research & Design ora diventa Collaborate & Design. O meglio: cercate di disegnare nuove opportunità tramite la collaborazione. Ma non basta. Si disegna per innovare e oggi l’innovazione è soprattutto evoluzione e non più (tanto) invenzione. La tanto citata civiltà digitale (che comunque è parzialmente già realtà) pretende dalle aziende una cosa apparentemente semplice: replicare nei prodotti e servizi le logiche e dinamiche dei social network, dell’open data e dei vari collaborative tools.

Detto in tre formule progettuali:

- Social design: l’arte di progettare prodotti e servizi aggreganti, fruibili collettivamente in condivisa partecipazione;

- Open design: l’arte di progettare prodotti e servizi evolutivi, modificabili dall’utente in solitudine o compagnia;

- Collaborative design: l’arte di progettare prodotti e servizi “democratici” nati dalla collaborazione con clienti, fornitori, concorrenti etc.

Ma la vera sfida futura (assai promettente) è il nuovo service design.

Disegnare la disintermediazione come ha fatto in Germania www.mytaxi.net: un’app e piattaforma un po’ open, un po’ social e un po’ collaborativa che semplifica (ed economizza) la vita del tassista e utente a scapito (ecco la disintermediazione) dei radiotaxi e call center che vedono il loro ruolo smaterializzarsi. Accadrà in molti settori.