Quando vendere è un fatto personale

Companies Quando vendere è un fatto personale

La componente umana nella vendita, intesa come ciò che rende unica la relazione, è qualcosa da preservare e non può diventare un corollario ai processi e ai paper work

Quando si dice che una sola persona può fare la differenza. Darti una ragione per scegliere e comprare, farti decidere se tornare o no. Sono anni che Doris mi accoglie nell’albergo dove lavora a Southwark, Londra. Lo scorso autunno sono arrivato per caso insieme ad un’altra coppia: “All my favourite guests arrived today!”. Esce sempre dal bancone della reception per abbracciarti e chiederti come stai. Poi ti porta un dolcetto di benvenuto e al check-in controlla se ti è stata assegnata la migliore camera disponibile, altrimenti la cambia per te, senza che tu debba chiedere nulla. Oppure se sono busy days controlla se nell’altro albergo a Waterloo, appena oltre The Cut può darti una soluzione migliore. Doris è stata recentemente promossa a responsabile. Tutti i weekend liberi, niente più turni, un aumento di stipendio. Ma lei preferisce stare con le persone piuttosto che seguire i “paper works”, mi ha confessato. Sono tornato nell’albergo per le festività di inizio anno. Era di sabato e lei non c’era. Senza lei ad accogliermi, con le sue premure e le sue domande, tutto mi è sembrato così impersonale, ordinario, senza sapore.

Cerco sempre Ornella per scegliere quali abiti comprare. Lavora in un negozio di una catena con qualche punto vendita nel Nord Italia. Siamo poco sopra il fast fashion. Ti chiede cosa stai cercando e poi ti porta qualche soluzione diversa da provare. Controlla sempre il camerino prima di farti entrare “La aspetto qui fuori così vediamo come va”. Se ci sono tanti Clienti quando esci ti lancia un’occhiata per dirti di aspettarla. Se pensa che può darti qualcosa di meglio per vestibilità o colore, ti chiede per favore di aspettare e di cambiarti di nuovo. Se serve qualche rifinitura nella taglia ti spiega come. Se hai una sarta di fiducia ti consiglia cosa dirle, altrimenti ti propone il loro servizio e punta direttamente sull’abito le modifiche. Al check-out chiama sempre il titolare e verifica se può farti qualche sconto in più o proporti qualcos’altro a un prezzo migliore. Ornella è l’unica commessa del negozio a fare così. Se lei non c’è, torno un’altra volta.

C’è bisogno di libertà nella vendita perché è un gioco tra due persone, un incontro che parte dall’individualità di ciascuno

Sono sicuro che se Doris e Ornella avessero a disposizione un piccolo budget da usare per rendere eccellente l’esperienza dei loro Clienti saprebbero come usarlo nel modo giusto per te. Sono loro che sanno rendere unica l’esperienza perché ti rassicurano, ti accompagnano, ti aiutano, ti riconoscono, si ricordano di te. Sanno rendere unica quell’esperienza anche se i brand per cui lavorano non hanno nulla di unico o di esclusivo. Sentono la responsabilità non solo di non proporti un prodotto o un servizio scadente ma soprattutto di proporti il migliore che hanno. Non pensi mai che ti propongano la cosa che devono vendere, ma percepisci molto bene quanto abbiano a cuore il tuo bisogno in quel momento. Sanno difendere gli interessi di chi stanno servendo e fanno dell’orientamento al servizio la cosa più importante per loro e così costruiscono quella base fedele di Clienti che si legano a quel brand “nella buona e nella cattiva sorte”1.

Ma è la storia di Doris a farmi pensare: davvero i suoi capi considerano la capacità di gestire gli aspetti burocratici e amministrativi la sua skill più preziosa? Perché non la mettono nelle condizioni di insegnare agli altri il modo in cui si accolgono i Clienti? Perché Ornella non può decidere in autonomia, entro certi limiti, che tipo di offerta dedicarti e deve sempre ottenere il consenso del suo capo? Eppure, questa loro attenzione verso i Clienti e la loro responsabilità nel fornire il miglior servizio ad ogni Cliente dovrebbe essere di per sé una garanzia sufficiente. Perché non sono liberi di mantenere quella promessa ogni volta? D’accordo, c’è un processo di accountability che dovrebbe servire per proteggere dipendenti e Clienti. C’è un insieme di regole che determina correttezza, sostenibilità e reddittività dell’azione commerciale. Ma come questa si concilia con chi dimostra di saper interpretare ancora meglio quelle regole per generare valore per il Cliente? C’è bisogno di più libertà nella vendita perché è “un gioco” tra due persone, un incontro che per essere autentico deve partire dall’individualità di ciascuno. Nel riconoscere-richiedere-rispondere-ripetere che caratterizza sempre la vendita2 le imprese dovrebbero consentire ai propri venditori di muoversi tra strategie diverse. Personalizzare e raccomandare, quando un Cliente ha già chiaro il suo bisogno.
Essere coach di comportamenti quando le persone non sanno ancora qual è il loro bisogno o vogliono essere rassicurate, aiutate, guidate. Essere veloci nelle risposte quando i Clienti autorizzano i brand a conoscere e ricordare abitudini e preferenze, come accade online ma soprattutto nell’incontro tra due persone. Questa strategia ha bisogno di contatto con la realtà, di osservazione di cosa accade, di persone più che di chatbot o intelligenza artificiale e di stare con le “periferie”, perché se “l’80% dei manager dice che sta sviluppando la miglior customer experience e solo 8% dei consumatori dice che è customer experience3 c’è un gap che mette a rischio la sopravvivenza dei brand sul mercato. Un rischio che possiamo ridurre solo ridando libertà a chi – vendendo – progetta autenticità.